Le mattine di fine agosto, a Milano, sembrano avvolte da un velato senso di sospensione, un'impalpabile impasse fra la frenesia dell'estate e le foglie secche dell'autunno. Esco di casa attorno alle nove - come quasi ogni mattina -, con il Mac nella cartella di cuoio sperando, probabilmente invano, che qualcuna delle mie scrivanie temporanee abbia riaperto: ad agosto, a Milano, tutti i somministratori di caffeina e WiFi chiudono i battenti. Sono andato in ferie perché non avevo più uffici dove lavorare, non per altro.
Giro l'angolo e mi sembra che qualcuno, nella via, abbia spostato qualcosa. Impiego qualche istante per accorgermi che ha aperto un nuovo locale. Con noncuranza, rallento il passo e butto qualche circospetta occhiata all'interno. Le vetrate, due, ampie, divise in rettangoli dal ferro battuto, lasciano entrare una luce obliqua, che accarezza i tavoli e gli arredi senza accecare. Qualche tavolino è già occupato. Al bancone ci sono un paio di persone con una tazzina in mano.
Sorrido leggendo l'insegna, lineare e per nulla chiassosa, al centro e sopra le due vetrate: Tuorlo.
Bel nome. Così breve, essenziale e metaforico da sembrare un titolo.
Entro. La porta non è né pesante né leggera, scivola con presenza, sembra accompagnarti nell'ingresso.
Il ragazzo dietro al bancone mi saluta, sorridendo senza circostanza. Cerco un tavolo in fondo alla sala, in modo da dare le spalle alla parete principale, avere le finestre sulla sinistra e il bancone di fronte; un passaggio sulla destra mi suggerisce l'idea di una seconda sala. Smuovo, da sotto al tavolo di legno, un'inaspettata sedia di plastica trasparente Kartell, rabbrividendo piacevolmente per il sordo vibrato che produce sul pavimento in cemento resinato. Mi riaccosto alla struttura in metallo satinato del tavolo e conquisto la superficie liscia e nodosa, tanto viva da indurmi alla ricerca di qualche scheggia ribelle sul bordo. Dal soffitto cala una foresta di lampadine multiformi, solo qualcuna è già accesa e mi chiedo che effetto creino la sera.
Giro l'angolo e mi sembra che qualcuno, nella via, abbia spostato qualcosa. Impiego qualche istante per accorgermi che ha aperto un nuovo locale. Con noncuranza, rallento il passo e butto qualche circospetta occhiata all'interno. Le vetrate, due, ampie, divise in rettangoli dal ferro battuto, lasciano entrare una luce obliqua, che accarezza i tavoli e gli arredi senza accecare. Qualche tavolino è già occupato. Al bancone ci sono un paio di persone con una tazzina in mano.
Sorrido leggendo l'insegna, lineare e per nulla chiassosa, al centro e sopra le due vetrate: Tuorlo.
Bel nome. Così breve, essenziale e metaforico da sembrare un titolo.
Entro. La porta non è né pesante né leggera, scivola con presenza, sembra accompagnarti nell'ingresso.
Il ragazzo dietro al bancone mi saluta, sorridendo senza circostanza. Cerco un tavolo in fondo alla sala, in modo da dare le spalle alla parete principale, avere le finestre sulla sinistra e il bancone di fronte; un passaggio sulla destra mi suggerisce l'idea di una seconda sala. Smuovo, da sotto al tavolo di legno, un'inaspettata sedia di plastica trasparente Kartell, rabbrividendo piacevolmente per il sordo vibrato che produce sul pavimento in cemento resinato. Mi riaccosto alla struttura in metallo satinato del tavolo e conquisto la superficie liscia e nodosa, tanto viva da indurmi alla ricerca di qualche scheggia ribelle sul bordo. Dal soffitto cala una foresta di lampadine multiformi, solo qualcuna è già accesa e mi chiedo che effetto creino la sera.
Vengo distratto dagli scaffali che rivestono la parete sulla mia destra, riconosco la copertina di qualche libro e l'etichetta di alcuni prodotti di nicchia, continuo a vagare con lo sguardo finché il ragazzo dietro al bancone mi raggiunge al tavolo: quasi non ci credo quando inizia a descrivermi le proposte per la colazione e penso di aver trovato la mia seconda casa mentre mi delinea la scelta di caffè, per miscele e per metodi di estrazione. Si ferma esattamente un attimo prima che la mia concentrazione cali per eccesso di informazioni. Ordino un caffè, gli chiedo comunque di lasciarmi il menù, per curiosità - o anche solo per accarezzare la copertina in pelle nell'attesa che mi venga voglia di lavorare.
Inizio a spizzicare il menù quando, da una porta in fondo sulla destra, esce una ragazza col grembiule, allacciato su una maglietta scura, un poco impolverato di farina. Posa un ciambellone, custodito da un'alzatina trasparente, di fianco agli altri prodotti da forno esposti sul bancone, a giorno, senza asettiche vetrinette a soffocarne l'aroma. Prima di rientrare in cucina si affianca al ragazzo, intento a pesare il caffè per la mia tazzina, gli posa una mano su un fianco, scambiano due battute, si sorridono. Lui la segue con lo sguardo mentre lei s'allontana.
In quella manciata di istanti mi pare di aver capito, di Tuorlo, tutto quello che c'è da capire. Come se quella mano sul fianco, il loro tono di voce, gli sguardi di affiatata determinazione e dolcezza, mi avessero raccontato la storia di questo nuovo, piccolo ma non troppo, nido del gusto e delle ore piacevoli.
Tuorlo è una caffetteria, ma anche un bistrot dove cenare e dilungarsi quando si ha voglia di mangiare qualcosa di sincero e curato; ed è anche un po' forno, perché senza un buon pane non riusciamo nemmeno a pensarlo, un pasto, leggo in calce a una delle pagine del menù. Quella che avevo immaginato essere un'altra sala si è poi rivelata una piccola anticamera, dove si fronteggiano una finestra sulla cucina e delle cave du jour regolate ad una temperatura stranamente poco bassa per contenere dei vini bianchi.
In quella manciata di istanti mi pare di aver capito, di Tuorlo, tutto quello che c'è da capire. Come se quella mano sul fianco, il loro tono di voce, gli sguardi di affiatata determinazione e dolcezza, mi avessero raccontato la storia di questo nuovo, piccolo ma non troppo, nido del gusto e delle ore piacevoli.
Tuorlo è una caffetteria, ma anche un bistrot dove cenare e dilungarsi quando si ha voglia di mangiare qualcosa di sincero e curato; ed è anche un po' forno, perché senza un buon pane non riusciamo nemmeno a pensarlo, un pasto, leggo in calce a una delle pagine del menù. Quella che avevo immaginato essere un'altra sala si è poi rivelata una piccola anticamera, dove si fronteggiano una finestra sulla cucina e delle cave du jour regolate ad una temperatura stranamente poco bassa per contenere dei vini bianchi.
Forse per discrezione, non indago oltre l'identità di Tuorlo, pur intuendone altre realtà. Infilo nel portafogli il biglietto da visita, di una carta morbida e vellutata, color grigio balena e la scritta proprio di quel giallo, Tuorlo.
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